lunedì 5 marzo 2018

INTERVISTA A PAOLA FERRERO



Ciao Paola, bentornata nel mio blog. Raccontaci qualcosa di te.

Ciao, grazie per l’invito. Che dire? Sono una giovane quarantottenne di Torino, nata e cresciuta qui, che ama le storie. Mi piace leggerle, ascoltarle, guardarle e raccontarle in ogni modo possibile. Sono sempre stata considerata una creativa: per vivere confeziono biancheria per la casa su misura in un laboratorio artigianale; per hobby ho iniziato con il disegno e la pittura, per continuare con canto, danza e recitazione, per poi trovare in un certo senso la mia strada con la scrittura. Amo cucinare, cammino molto e passo tutto il tempo possibile con le mie gatte e il cane. Da quasi quattro anni sono innamorata della pole dance, mentre da piccola sognavo il pattinaggio artistico su ghiaccio.

Il diploma all’Istituto Magistrale e il corso di laurea in Storia e Critica del Cinema, ma è la danza la tua vocazione. Parlacene.

La danza mi ha “folgorata” in prima media. La leggerezza che evoca, soprattutto, era quello che mi mancava all’epoca. Odiavo il mio corpo, l’essere fatta di materia mi sembrava un limite enorme, sognavo di “volare” senza peso, di essere altro da me. Ci ho messo un anno a decidere che il mio futuro sarebbe stato questo, e per un decennio lo è stato. Poi la vita ha deciso altro per me. Come ogni passione totalizzante, smettere mi ha scottata a tal punto che per anni non ho voluto più nemmeno vedere un passo di danza accennato in tv. Poi mi sono trovata in terza fila ad assistere a “Notre Dame de Paris” e al primo balletto ho pianto tanto da dimenticare tutti gli anni in cui il movimento armonioso della danza è stato distante. Non ho mai ripreso, non al livello in cui ho lasciato, perché per me è sempre stato “o tutto o niente”.

Hai coltivato varie esperienze lavorative, dalla babysitter alla cameriera, dall’insegnante di danza alla commerciante. Dove trovi il tempo per scrivere e come si è accesa questa tua passione?

Da diversi anni ho un lavoro stabile, in laboratorio, quindi orari fissi e weekend liberi. Da sempre preferisco scrivere la sera, o la notte quando non sono troppo stanca. Avendo però sempre meno tempo, può succedere che scriva anche in pausa pranzo. 
Uso prevalentemente pc e tablet, ma quando ho iniziato a scrivere usavo matite, penne e pennarelli e scrivevo su qualsiasi supporto. Amando le storie è stato abbastanza naturale passare dalla lettura alla scrittura. Poesie, recensioni, brevi articoli alle medie per approdare al romanzo intorno ai sedici anni – con un progetto finora incompiuto, perché mano a mano che scrivevo mi rendevo conto della difficoltà e della mia incompletezza. Ho pensato di pubblicare solo nel 2009, e di anni ne avevo già quaranta. Avevo già dei romanzi iniziati ma la prima pubblicazione è toccata alla poesia.

Sei appassionata di Pole Dance. Raccontaci qualcosa. Hai mai pensato di usarla come ispirazione per un tuo libro?

In tutto il mio percorso verso la leggerezza, l’incontro con la Pole Dance è stato come trovare la giusta misura. Mette d’accordo il mio desiderio di volare e la materia del mio corpo. Contrariamente a ciò che si pensa, la Pole è una disciplina sportiva che porta benefici immensi sia fisicamente che mentalmente. Occorre forza, resistenza, coraggio, flessibilità e un minimo di follia. Chi la prova, difficilmente abbandona. Nonostante i lividi, i calli e la fatica. Si impara ad amare le capacità immense del corpo e della mente; ci si accetta per quello che si è; si arrivano ad amare perfino le imperfezioni.
Scriverne per ora resta un sogno. Sì, un’idea ce l’avrei, ma è troppo difficile descrivere un mondo in cui convivono strippers e ingegneri aerospaziali, medici e ricercatori, commesse e pensionate – sì, ho una compagna di pole che ha ben 74 anni ed è uno spettacolo – tutte completamente pazze per questo sport. Tutti si aspetterebbero solo storie di night club e ragazze perdute.

Tra le tue pubblicazioni, ricordiamo la prima silloge “Parole d’amore insano” uscita nel 2009. Perché la poesia?

La poesia è la prima cosa che ho scritto, con tutti i miei limiti. Sui diari di scuola, sulle pagine bianche dei libri, sui fazzoletti di carta. È immediata, pulita. Dentro ci possono essere milioni di cose vere, anche profonde; come anche può diventare mero esercizio di stile. A volte in una frase sola c’è la verità di una vita intera. A volte basta quella frase a raccontare un mondo.

Nel 2014, esce “Gli attimi in cui Dio è musica”. Di cosa si tratta?

Fino a “Gli attimi…” ho sempre scritto – e ho anche continuato a farlo in alcuni casi – storie più cupe, dark in senso ampio, scenari legati ad altri mondi e tempi. Per un momento, dopo aver pubblicato le poesie, ho preferito accantonare quelle storie e scrivere un omaggio alla danza, al mio essere stata aspirante ballerina negli anni ’80, quando tutti ci ripetevano che bastava volere qualcosa per ottenerlo. Non era vero, ma allora era bello crederci. Era bello sognare. Da “Gli attimi…” è nato lo spin off “Vittorio”, uno dei titoli più scaricati della mia produzione in ebook.
“Gli attimi in cui Dio è musica” è un memoir, una versione romanzata della mia adolescenza, parte di me.

Esce poi “Addio a Bodhgaya” e, nel 2016, esce “Sette stanze”. Cosa troveranno i lettori al suo interno?

Mentre “Addio a Bodhgaya” era nato come un racconto di viaggio – sia interiore che reale – per trasformarsi in una riflessione sul lutto, “Sette stanze” è la storia di una rinascita. Ci si trovano errori, cose non dette e la forza che arriva dalla disperazione e dal ritrovare sé stessi.


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Qual è stato l’input per questo libro?

Ho iniziato a scriverlo pensando a un amico, conosciuto su Facebook. Cercavo di mettere insieme i suoi pezzi, prendendo spunto dai nostri dialoghi surreali. In ogni cosa che mi diceva di sé, io vedevo un particolare in più, vedevo un aspetto diverso. Quando ha letto il primo capitolo si è riconosciuto subito. In realtà non avevo intenzione di farne un romanzo: a volte mi capita di scrivere pagine e pagine solo per esercizio descrittivo, questa era una di quelle volte. Poi, rileggendo, mi sono domandata se fosse il caso di dare una chance a quell’uomo di carta, chance che mi è costata un sacco di notti insonni.

Quali tematiche affronti e quale messaggio vuoi trasmettere?

Credo che il cambiamento sia il tema che accomuna i miei lavori, o almeno buona parte di essi. Ci sono passaggi oscuri, ci sono sofferenze, c’è amore e dove c’è amore c’è cambiamento. C’è rinascita, appunto. “Sette stanze” è, diciamo, un apostrofo rosa nella mia produzione. Credo sia un romanzo ottimista, nonostante tutto. Imperfetto, probabilmente.
Non credo nei messaggi trasmessi volontariamente, programmati. Credo nelle storie e nei personaggi, credo che loro possano parlare e dire mille cose più di quante vorrei dirne io. So che quando sono loro a parlare le persone che leggono li ascoltano davvero.

Proprio con questo libro sei stata finalista al Premio Cinquantesimo Marcelli. Cosa ricordi di questa esperienza?

Quando ho terminato la scrittura del romanzo l’ho mandato ad alcuni concorsi ed editori. Non avevo grandi aspettative, ero concentrata sul progetto successivo e mi sono preparata a dimenticarmi di lui.
Ricevere l’invito per la finale a Senigallia è stato il segno che per il romanzo c’era una possibilità. Poi non ho vinto, ma sono contenta così. Il romanzo ha anche partecipato, come altri due miei lavori – di cui un romanzo che è entrato nei 300 che superano la prima fase e che sto riscrivendo – al torneo IoScrittore, indetto dal Gruppo Mauri-Spagnol. “Sette stanze” non ha incontrato il gusto dei partecipanti, fa parte del gioco. Ha comunque trovato il suo posto e tanto mi basta.

Parlaci un po’ di IoScrittore. Consiglieresti agli autori di parteciparvi?

Ho partecipato più volte, divertendomi e imparando molto su come avrei voluto o non voluto scrivere. I giudizi dei partecipanti, negli anni, non sono sempre stati utili. Il bilancio è diciamo in pari. Ora non partecipo da un po’, per motivi di tempo e perché ho voglia di scrivere senza preoccuparmi dei giudizi altrui. A volte è vero che per vendere è necessario andare incontro al gusto e alle necessità del mercato, ma non è sempre sinonimo di libertà di creare o di originalità. Sempre più spesso, entrando in libreria, vedo copertine simili, titoli simili, trame simili. Ecco, dal mio punto di vista è meglio non vendere ma scrivere qualcosa che mi appartiene. Ciò non toglie, comunque, che per scrivere sia necessario leggere molto. Il Torneo può aiutare, se si incontrano i romanzi giusti e se il nostro lavoro viene letto dai partecipanti giusti. Un parere costruttivo, favorevole o meno, è sempre uno spunto di riflessione per scrivere meglio e il confronto con altri autori è utilissimo.

Nel 2017 esce la silloge “L’universo è amore e sangue”. Poesia Vs. Romanzo, chi la vince?

Romanzo, nel mio caso. Anche se ho scelto di pubblicare, pur senza editore, la seconda raccolta di poesie. Ho scelto il self, ho raccolto le ultime poesie e qualche brano in prosa e l’ho lanciato. Chi vivrà vedrà. Ho deciso di non mettere limiti a ciò che faccio.

Il tuo pensiero sul Self Publishing?

Anni fa non avrei mai pubblicato in self. Ho scelto questa formula per due raccolte – una di poesie e una di racconti già pubblicati in antologie promozionali – perché non avrebbero avuto spazio con l’editoria tradizionale. La poesia vende poco o niente, difficile che qualcuno investa e se lo fa richiede un certo numero di pagine o di non mettere insieme poesia e prosa ma la mia idea era di creare un libro proprio come l’ho pubblicato in assoluta libertà, usando per la copertina la foto di un particolare di un mio quadro. Credo che sia pieno di finti editori che speculano sul desiderio di pubblicare, che ci siano molti editori piccoli che non svolgono appieno il lavoro classico dell’editore. A un certo punto è meglio il self.
Non credo, però, che lo farei con un romanzo, che necessita di un editing professionale, di una correzione di bozze, di impaginazione corretta e adeguata, di una copertina studiata per vendere, di un minimo di pubblicità e distribuzione. Ci sono molti lavori validi, pubblicati in self, che hanno impaginazione orrenda tanto da risultare illeggibili; senza parlare dell’editing inesistente. Io magari sono esagerata, ma non acquisterei mai un romanzo nel cui titolo ci sono già due errori. Ormai valuto i miei acquisti dall’anteprima sul web, o mi catturano o niente.
È vero che si guadagna di più, ma si è un numero tra migliaia di titoli ogni anno. O si è perfetti o è meglio lasciar perdere.

Hai qualche altro progetto in cantiere?

Ho già terminato due romanzi, che per ora non ho spedito a nessun editore. Sono usciti tre romanzi e un racconto noir (“L’altra donna” Lettere Animate 2015), in tre anni. Non voglio disperdere troppo il mio lavoro.
Sto finendo un ennesimo romanzo, un po’ atipico per me, poi mi dedicherò alla riscrittura del romanzo che aveva raggiunto il cuore dei partecipanti al Torneo. Per farlo rientrare nei loro canoni lo avevo stravolto oltre il dovuto, ora lo devo far tornare quello che era in origine, con un tocco in più, perché nel frattempo io sono cambiata e con me la mia scrittura.

È stato un piacere ospitarti nel mio blog. In bocca al lupo per tutto!

Ti ringrazio e continuerò a seguire le tue interviste e segnalazioni. È sempre un piacere.

Per seguire Paola      PAOLA FERRERO

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